E MARCHÉ SE CORS
Il Mercato del Corso

Il socio Virginio Cupioli (Tonino), classe 1926, già Capo Stazione Superiore, ricorda alcuni aspetti di Rimini negli anni Trenta del secolo scorso.

La popolazione dei dintorni per acquistare scarpe, biancheria, suppellettili, terraglie e altri oggetti necessari per l'uso quotidiano, era solita recarsi te marché se Cors, dove si parlava in vernacolo e il contatto con le persone era quasi intimo. Le trattative, favorite dalla spontaneità individuale, erano lunghe e insistenti per ottenere un prezzo più basso. Le persone semplici del contado erano restie a entrare nei negozi per timidezza, pensavano avessero prezzi più alti e che fossero al buteghi di padrun (le botteghe dei padroni) esclusive per il ceto medio e la borghesia.

I banchi degli ambulanti occupavano lo spiazzo di fianco al Teatro e quello davanti al portone del Castello. Molte mamme vi si recavano anche per comprare le scarpe da tennis di tela con fondo gommato, usate dai figli durante il periodo estivo, che si annerivano quasi subito e che erano ripassate con la biacca. Vari ambulanti, per lo più toscani, offrivano merci scadenti (piatti, tegami, biancheria...) a prezzi vantaggiosi, esponevano pile di oggetti diversi e per stimolare l'acquisto, offrivano una lusinga (coperta, pentola...) per regalo, cioè come si dice in dialetto, la cherna ad lodla (carne di allodola).

Tanti abboccavano, decisivo era il prezzo basso e il regalo, l'eventuale difetto non impediva l'uso. Tramite megafono manuale, attiravano gli acquirenti che sostavano anche per la curiosità di assistere ai loro coloriti inviti. Altri capannelli si formavano per osservare e farse delle macchiette, i saltimbanchi, gli sputafuoco, i giocolieri o degli forzuti simili a Zampanò, personaggio del film La Strada, da cui certamente Federico Fellini prese lo spunto. Si esibivano anche declamatori delle argute poesie dialettali di Giustiniano Villa, ciabattino di San Clemente (deceduto nel 1919 dopo essere stato investito da un barroccino in via Soardi), ritenuto uno dei più grandi poeti dialettali d'Italia, ammirato ed elogiato dal Pascoli che l'aveva ascoltato alla Montagnola di Bologna.

Leggeva sui giornali l'attualità del momento, fatti politici, la cronaca, osservava il comportamento della gente, la loro generosità, gli egoismi e le credenze, le trasformava in poesie dialettali e le declamava nelle piazze della Romagna in piedi su uno sgabello quadrato con palo su cui infilzava il foglio della rima recitata. I rurali semplici e analfabeti lo ascoltavano ammirati e compiaciuti unitamente alle persone colte che apprezzavano il genio in vernacolo, e alla fine tutti compravano il foglietto.

Altri crocchi ascoltavano suonatori di organetto e cantanti che ad alta voce allietavano i presenti con vecchie canzoni ottocentesche e contemporanee. Non mancavano i cantastorie che davanti a una pala illustrata da vignette descrittive di un fatto di cronaca, con una cannetta indicavano la cronistoria cantando e raccontando con enfasi i momenti atroci e lieti della vicenda che appassionava e prendeva gli ignari e semplici ascoltatori. Tutti alla fine passavano col piattino a ritirare l'obolo offerto volentieri.

Fra tutta questa folla giravano i venditori ambulanti improvvisati che portavano su se stessi oggetti in vendita: cinture, cravatte... Erano poveri cristi indigenti. Conosciutissimo era Bigulin, Silvio Crostelli, che teneva le cravatte sul braccio teso in mostra, le stringhe e le cinture sulle spalle, le stilografiche nel taschino. Simpatico a tutti, col suo immancabile farfallino, riusciva a vendere a molti che compravano per solidarietà. Mangiava poco, era quasi trasparente, era sufficiente un bicchiere di vino per renderlo arzillo, cantava nei vicoli fino a tarda notte, viveva alla giornata.

Una caratteristica di piazza Cavour era la presenza dei mediatori del circondario nei giorni di mercato. Qualcuno vestiva tradizionalmente con capparella e zanetta (bastone ricurvo); sostavano dentro e fuori il caffé vicino alla Pescheria scambiandosi notizie, sapevano tutto degli atti pubblici e privati del momento e chi aveva bisogno di fare un affare si rivolgeva a loro, sicuro di concludere ciò che voleva. Un vicesindaco assessore all'edilizia privata, guardando dalla finestra del Comune verso di loro esclamò: Qui mu me im fa al polsi. (Quelli a me fanno le pulci). Erano temuti dai politici perché mettevano becco anche nell'Amministrazione pubblica, la loro era la voce del popolo.

Virginio Cupioli