IL CORTILE DEI PAPUZZARI

Il borghigiano del centrale rione cittadino della Castellaccia, Franco Fontemaggi, classe 1930, ha lasciato un racconto di come e dove da bambino trascorreva a volte il tempo libero con i compagni di giochi.

In via Ducale, in casa Mecozzi (detto l'Ucialon), abitava la famiglia Castellucci che tutti chiamavano i papuzzari perché d'inverno fabbricavano calde pantofole con dentro il pelo di coniglio, e d'estate sandali con alto zoccolo di sughero per le donne, mentre per gli uomini la suola era di gomma ricavata da vecchi copertoni d'auto. Tutto il materiale lo tenevano impilato in un fondo che dava sul cortile dove con Senio, uno dei cinque figli dei papuzzari, assieme agli amici organizzavamo interminabili battaglie con spade di legno e scudi di cartone, oppure con fuciletti di legno che noi stessi sagomavamo.

Due squadre si affrontavano dietro le pile di copertoni e grosse balle di pelo; dai fucili partivano scariche di elastici e di tanto in tanto un grido: Colpito!. Il resto del cortile opposto al fondo era occupato da un capannone grande come un hangar, con cinque finestre a due ante scorrevoli e al posto dei vetri, inchiodati sui telai, pezzi di legno o di compensato; tutto sembrava in disuso da molti anni, ma qualcuno lo usava come deposito.

Un camion veniva due o tre volte al mese, depositava montagne di carta straccia e a volte ripartiva con grossi pacchi compressi e legati con nastri di metallo per il macero. Fra questi andirivieni del camion noi tentavamo il colpo: infilavamo un ferro piatto fra le due ante, sollevavamo il catenaccio, aprivamo quel tanto per passare e ci chiudevamo dentro. In un buio quasi totale, il sole passava solo attraverso le fessure della finestra e accendeva strisce di polvere. Le gambe traballavano, il fiato era corto: temevamo che tornassero gli uomini del camion, ma ormai eravamo dentro, dovevamo rovistare in quelle montagne di carta per trovare il nostro tesoro.

Qui abbiamo trovato album di Topolino e di Mandrake, qualche libro giallo che io leggevo con delizia nei giorni di pioggia. Con la rivista illustrata Le cento città d'Italia e con un po' di fantasia feci viaggi da nababbo. Trovai il libro Gli uccelli cantatori doviziosamente stampato a Parigi nel 1870; e il Quo vadis?, scritto da Henryk Sienkiewicz, che descriveva così bene la vita del popolo e dei grandi della Roma Imperiale che sembrava di viverla. Questi e tanti altri ancora furono i tesori scoperti in quella affascinante e misteriosa miniera.

E non finivano qui le gioie del cortile che, come un giardino dell'Eden, aveva anche l'albero dei frutti proibiti. Era un fico piantato nella proprietà Ghinelli, detti i Batech, che travalicava il muro e ci mostrava i suoi golosi frutti. La tentazione era grande, ma come arrivare così in alto? L'inventiva non ci mancava: con una canna, appositamente tagliata in cima come una forchetta a due punte, cercavamo di staccare qualche frutto fin quando le grida di uno dei Batech ci faceva desistere. Era forse l'Angelina che urlava: Ades, ades brot spuzun!. E noi lì dietro, zitti, ma dopo un po' scoppiavamo in uno sghignazzo, nascosti e protetti da quel muro.

Franco Fontemaggi