TEMPO CHE FU

Durante la II Guerra Mondiale i cittadini riminesi, per il susseguirsi dei bombardamenti che senza tregua martellavano la città, cercarono scampo nei limitrofi comuni dell'entroterra. Fu così anche per il mio nucleo famigliare (composto da me, i miei genitori e la mia sorellina) che sfollò nel comune di Roncofreddo, più precisamente in una sua frazione, Cento. Rimini fu liberata dagli Alleati il 21 settembre 1944. La città uscì dal conflitto ridotta a un cumulo di macerie, con l'82% degli edifici lesionati o distrutti.

Passato il fronte mio padre, per una banale ferita alla gamba che si era infettata, ritardò di una decina di giorni il ritorno in città. Quando poi questo avvenne, la ricerca di un'abitazione rappresentò un arduo, problematico, compito. Dopo tanto e affannoso girovagare trovammo finalmente sistemazione nel sobborgo Castellaccia, in quello che era denominato il palazzo Palloni, sito in via Ducale, al secondo piano, ultimo appartamento. Il proprietario, Pietro Palloni, era un personaggio illustre, che nell'anteguerra aveva ricoperto la carica di podestà della città, del quale si vociferava fosse persona ricchissima, proprietario d'innumerevoli proprietà immobiliari.

A suffragare questa sua fama, era diffuso il sentir pronunciare, fra il serio e il faceto, da parte di qualcuno quando non era in grado di affrontare determinate spese perché al limite o superiori alle proprie tasche, la seguente frase : Non mi chiamo mica Palloni!. L'appartamento nel quale ci insediammo era spazioso, ma si trattava di una coabitazione, una destinazione d'uso comune anche agli altri sei appartamenti del palazzo. La penuria di abitazioni aveva giocoforza obbligato le persone a disagiati adattamenti. A coabitare con noi, occupando una camera, c'era una signorina abruzzese, sorella di un coinquilino dell'appartamento attiguo. Questa stanza rimase, poi, a disposizione della nostra famiglia quando, circa due anni dopo, fu lasciata libera.

I vani abitativi erano costituiti da: un corridoio d'ingresso, dove trovavano ricovero le due biciclette una da uomo e una da donna, provviste di sellini per il trasporto di noi bambini; subito sulla destra si trovava l'ampia cucina in fondo alla quale sulla destra c'era una porta che, tramite un ballatoio esterno, la collegava alla latrina. Quest'ultima al suo interno aveva un piano rialzato, dove in posizione centrale era posto il buco di scarico, chiuso da un coperchio.

In merito, un particolare che ora può fare sorridere riguarda la carta igienica, considerata a quel tempo quasi alla stregua di un bene di lusso. In sua vece era comunemente usata la carta di giornale. Mio padre, sicuramente a malincuore, ogni tanto provvedeva a tagliare in quattro le pagine del suo tanto amato giornale, L'Unità, che acquistava quotidianamente. Rimanendo in tema, un amico, figlio del mio maestro alle scuole elementari, rivangando nei suoi ricordi, mi raccontava che sua madre, quando a casa riceveva la visita di qualche ospite di riguardo, provvedeva a sostituire l'abituale carta di giornale con un rotolo di carta igienica, che teneva sempre gelosamente custodito.

Tornando all'appartamento, il corridoio aveva una funzione cerniera fra i vari ambienti perché vi si affacciavano sulla destra, oltre al già citato vano cucina, la sala da pranzo e di fronte la porta d'ingresso alla zona notte, costituita da tre camere, con la mediana di transito. A proposito della cucina, quando se ne prese possesso, aveva uno squarcio nel soffitto. Danno che mio padre provvide celermente, nei giorni successivi, a far riparare. Tutti gli ambienti della casa avevano finestre, ma quando si mise piede per la prima volta erano tutte prive di vetri. Per sopperire a tale mancanza, il babbo le tamponò utilizzando, provvidenzialmente, lastre di raggi X reperite fra le macerie di un'ala del vicino ospedale.

Altro aspetto spiacevole era la presenza dei topi: l'abbandono degli edifici durante il periodo bellico aveva permesso il loro indisturbato proliferare. Per debellarli, il babbo ricorreva, oltre al veleno e alle trappole, a tappare i numerosi interstizi presenti tra parete e pavimento, dove i roditori avevano la tana, usando una pasta cementizia nella quale vi triturava del vetro. Il suo impegno fu ben presto premiato e il problema si risolse.

Per un certo periodo, nei primi tempi, mancava il collegamento idrico all'acquedotto, ancora da ripristinare. Questa fu sicuramente la causa dello scatenarsi in città di un'epidemia di tifo petecchiale. Allora per l'approvvigionamento ci si serviva, dopo lunghe file, alla fontanella posta sul muro esterno della caserma di via Ducale. In cucina, per la cottura dei pasti e per il riscaldamento, si disponeva di una stufa economica, alimentata a legna e carbone. A questo fine il babbo, operaio ferroviere alle officine di via Tripoli, provvedeva ogni anno presso la sua azienda ad acquistare a prezzo calmierato, carbone e legname costituito da dismesse traversine ferroviarie.

La stufa era l'unica fonte di calore presente e d'inverno, spesso intirizziti, ci si raccoglieva volentieri attorno a essa. Col freddo, per trovare conforto, aprivo spesso lo sportello del forno e, seduto di fronte, vi accostavo i piedi. Questa operazione, però, comportava come immancabile conseguenza il sopravvenire dei fastidiosissimi geloni. Un impegno mattutino del capo famiglia era anche quello di accendere il fuoco della stufa e, quando necessario, togliere periodicamente la fuliggine dai tubi. Per alimentare di legna il forno utilizzava un mannarino per spaccarla e ridurne le dimensioni.

La sera, qualche ora prima di coricarci, dalla stufa erano prelevati tizzoni ardenti e inseriti in un contenitore d'argilla, detto suora, che a sua volta era depositata in un'incastellatura, detta prete. Questo rudimentale impianto veniva, poi, posto nel letto tra le coltri per riscaldarle. Sempre in cucina si trovava un ampio e lungo lavandino, nel quale uno spazio era riservato a un capiente mastello di legno, che mamma utilizzava per il bucato e saltuariamente aveva anche la funzione da vasca da bagno. Per assolvere questo compito, in estate i bagni e i lavaggi si effettuavano nelle acque basse e correnti del vicino fiume Marecchia dove ci si recava muniti di asciugamani e saponette.

Nella tarda serata del 13 dicembre 1949 nacque in quella casa il mio fratellino. A quei tempi le donne, assistite da una levatrice, partorivano per lo più ancora in casa. Quella sera, rinchiuso nella mia camera, sentii impotente le prolungate e strazianti urla di dolore di mia madre, cui poi seguirono i vagiti del nascituro. Fu per me un angosciante, trepidante evento traumatico.

In famiglia, almeno finché non ci fu l'avvento della televisione, avvenuto dopo la metà degli anni Cinquanta, la sera, dopo cena, si ascoltava la radio, si conversava, oppure ci si riuniva attorno a un tavolo a leggere. La lettura del libro, ad alta voce, ci coinvolgeva tutti, a turno ce lo passavamo dopo qualche pagina, in una sorta di staffetta. A quel che ricordo, tutti i libri che leggemmo, oltre che avvincenti, erano del genere strappalacrime. Mi sono rimaste impresse alcune di quelle letture: I Miserabili di Victor Hugo, Oliver Twist di Charles Dickens, Germinal di Emile Zola, Delitto e Castigo di Fedor Dostoevskij, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Ricordi di una vita semplice, modesta, ma di certo felice e spensierata.

Giovanni Vannini