BIRICHINATE DI UNA VOLTA

Racconto un fatterello accadutomi negli anni '50 quando avevo sei anni. Abitavo allora a Viserbella, a monte della ferrovia, zona di orti, in una casetta proprietà dei miei genitori. Mia madre faceva la cuoca in una pensione di Viserba. Mio padre aveva un'edicola in centro a Rimini, partiva al mattino di buonora con la bicicletta e faceva ritorno la sera tardi.

Nel pomeriggio prima di andare al lavoro, la mamma mi faceva le solite raccomandazioni: di non bisticciare con gli amici, di stare attento ai pericoli, di rimanere in casa, di non combinare guai... Tanti erano i miei amichetti, più o meno coetanei che abitavano nei paraggi. Avevo una sorellina di tre anni, Miriam, molto vivace, ma in quel periodo non stava bene. Il medico le aveva prescritto una medicina a base di vitamine, composta di tanti piccoli granuli colorati e molto dolci, contenuti in un barattolo. Anch'io di tanto in tanto assaggiavo un granulo come fosse una caramella, visto che allora era molto raro riceverne.

Era il 1° di marzo. Quel pomeriggio due amici, Mario e Giovannino, che mi erano venuti a trovare, feci assaggiare i favolosi granuli dolci; loro però a poco a poco se li mangiarono tutti nonostante le mie accorate suppliche di non farlo. Al suo ritorno, la mamma, trovato vuoto il barattolo della medicina per mia sorella, se la prese con me e nonostante le mie giustificazioni mi sgridò e mi mollò anche un paio di ceffoni, questo perché non avrebbe potuto curare la piccolina con la medicina che peraltro era anche costosa. In quel periodo alla famiglia non mancava nulla, ma si viveva risparmiando sempre su tutto.

Io, come reazione alla severa punizione subita, colmo di rabbia e per dispetto uscii e mi rifugiai sul ramo più alto di un salice che si trovava di fronte a casa e sparii così alla sua vista. Col passare del tempo la mamma iniziò a preoccuparsi e allarmò tutta la parentela e il vicinato per la mia scomparsa. Allora in quella zona periferica le strade erano fangose perché non asfaltate, non c'era l'illuminazione, le abitazioni erano prive di telefono, tutte le comunicazioni rimanevano pertanto difficili. Solo qualche famiglia possedeva qualche sgangherata bicicletta.

La guerra era passata da pochi anni e incominciava la rinascita con l'affluire dei primi turisti. Era già buio quando una parente, entrando in casa, avvisò la mamma che gli sembrava di avere intravisto sull'albero dove mi trovavo una sagoma indistinta. Io avevo sentito la conversazione e repentinamente scesi e mi rifugiai in una latrina che distava da casa circa 50 metri. Questo manufatto edile realizzato con mattoni aveva come copertura una lamiera. La porta era costituita da assi di legno grezze con una chiusura di metallo (maniglia) chiamata marletta.

Gli abitanti della zona erano alla mia ricerca. Ricordo che dalla latrina dove mi ero rifugiato, si sentiva intenso il puzzo maleodorante che proveniva da una grande vasca posta nelle vicinanze, dove si raccoglieva il letame (e stabi) degli animali che si allevavano. Detto intruglio serviva a primavera come concime per i terreni, favorendo così la crescita rigogliosa degli ortaggi. Intanto la ricerca risultò vana fino a quando una signora che aveva necessità del servizio e non riusciva a entrare, sospettando che vi fossi io rinchiuso all'interno, chiamò gente. A quei tempi vi era molta solidarietà fra le persone.

Così fu che dall'unica finestrella, fatta luce con un lume ad acetilene, venni individuato. Scoperto, visti vani i tentativi d'impedire l'accesso, desistetti ed uscii. Mia madre, coadiuvata anche da qualche altro astante, mi sculacciò a dovere ricoprendomi pure di una lunga sequela di improperi. Io furbescamente, anche se non ricordo di aver sentito dolore, mi misi sonoramente a piangere con l'intento di arrestare la punizione che mi era inferta e così avvenne. In cuor mio però mi ripromisi di non fare più simili bravate, visto che avevo messo tutto il borgo in subbuglio e provocato ansia e dolore ai miei famigliari.

Flavio Ceccarini